Era il 1974 quando la multinazionale chimica americana Monsanto brevettava e immetteva sul mercato mondiale il glifosato: un erbicida in grado di fissare nel terreno minerali (Calcio, Ferro, Cobalto, Rame e Zinco) essenziali per piante, microorganismi e animali.
Una volta che questi nutrienti diventano indisponibili, il regno vegetale (erbe, arbusti, alberi) ed interi habitat che svolgono attività fotosintetica, disseccano completamente.
A distanza di circa due settimane dal trattamento, tutta la vegetazione appare appassita e il terreno rimane esposto a dilavamento, erosione, smottamenti e invasione di specie invasive divenute resistenti al pesticida.
Questa sostanza è ampiamente utilizzata in vigneti, oliveti, frutteti, agrumeti, noccioleti ma anche in coltivazioni orticole e cerealicole, nonché in aree industriali, sedi ferroviarie, argini di canali, fossi, giardini privati ed aree pubbliche quali parchi o scuole.
Il glifosato è molto resistente nell’ambiente: come segnalano i rapporti ISPRA sui pesticidi nelle acque italiane, le sostanze più ritrovate sono proprio il glifosato e il suo metabolita AMPA.
Purtroppo, attualmente il monitoraggio sulla presenza di queste sostanze nelle acque destinate al consumo umano è operato solo in Lombardia e più di recente in Toscana e in Emilia-Romagna, dove è stato rilevato un grave stato di contaminazione.
Dietro questa molecola si muovono interessi enormi, anche perché il glifosato è strategico nella produzione di organismi geneticamente modificati (OGM), fra i quali i più diffusi (mais, soia e colza) resi resistenti all’erbicida, sono utilizzati come mangimi per gli animali, il che permette al glifosato di entrare nella catena alimentare, attraverso il consumo di carne e prodotti derivati.
Un articolo sul prestigioso New England Journal of Medicine ha messo in guardia sia sui rischi per la salute umana correlati agli OGM sia sulla comparsa di specie erbacee resistenti all’erbicida.
Lo stesso fenomeno dell’antibiotico resistenza ha richiesto l’utilizzo di quantità sempre più elevate di glifosato, addirittura in combinazione con il 2,4D, uno dei componenti del famigerato “agente arancio” utilizzato come defoliante durante la guerra del Vietnam.
Non solo dunque gli utilizzatori di glifosato sono in pericolo, chiunque può venire in contatto con esso, attraverso l’acqua e l’alimentazione: metaboliti di glifosato sono stati ritrovati nel plasma, nelle urine e persino nel latte materno.
I sintomi per esposizione acuta sono: occhi gonfi, intorpidimento del viso, bruciore o prurito della pelle, vesciche, rapida frequenza cardiaca, elevata pressione sanguigna, dolori al petto, congestione, tosse, mal di testa e nausea.
Le conseguenze derivanti dall’esposizione cronica, a dosi piccole ma ripetute nel tempo, sono svariate e possono rivelarsi anche puttosto gravi.
La IARC (Agenzia per la Ricerca sul Cancro) ha inserito il glifosato nella classe 2A, tra le sostanze “probabilmente cancerogene”, in particolare per l’insorgenza di linfomi non Hodgkin, confermando quanto era già emerso nel 1999.
Dati scientifici attendibili hanno appurato che il glifosato è un interferente endocrino, interferisce nella normale funzionalità ormonale (progesterone, estrogeni, testosterone) e, anche a concentrazioni ritenute non tossiche, può influenzare negativamente le cellule placentari umane.
I rischi per la salute sono innumerevoli: danni a fegato, reni, vescica, pancreas, attività cardiovascolare, DNA, membrane cellulari, modificazioni del microbioma intestinale (squilibri nella flora intestinale, crescita eccessiva di agenti patogeni, infiammazioni, allergie alimentari, intolleranza al glutine), carenza cronica di acido folico, patologie autoimmuni, malattie della tiroide e neurodegenerative, anemia, osteoporosi, depressione.
Si tratta di un composto ad elevata tossicità, in grado di alterare gli ecosistemi con cui entra in contatto e indurre gravi danni sia alla salute umana che all’ambiente:
· riduce la biodiversità (specie erbacee, anfibi, lombrichi, api)
· compromette la stabilità dei terreni alterandone l’humus e contribuendo al dissesto idrogeologico
· provoca serie patologie, anche mortali.